Un ragazzo trans* di Reggio Emilia, che ha bisogno di lavorare (perché quando inizi la transizione il lavoro che hai da anni è facile che lo perdi, come in questo caso), cerca di iscriversi a una serie di servizi di food delivery, tra cui UberEats.
E’ consapevole che si tratta di un lavoro pesante, ma è in regola, e si dice anche: a chi importa l’identità di genere di chi ti consegna un hamburger?
Be’, in questo caso importa all’assistenza. Che correttamente informata della questione (e a fronte di una foto che non lascia dubbi sull’identità maschile nonostante documenti al femminile) non solo risponde alle sue richieste sostituendo il nome elettivo con il “deadname” (il nome anagrafico – in questo caso femminile – ricevuto alla nascita, che rappresenta chi non si è, e vi assicuro che è doloroso), ma richiede che il nome del profilo visibile ai clienti corrisponda ai documenti che ha: quelli che – a causa della legge italiana che è rimasta al 1982 – non ha ancora potuto rettificare (e non potrà per qualche anno ancora grazie a una procedura che include fior di perizie, udienze in tribunale, spese enormi).
Non è una cosa da poco. Per il cliente, cui la app dice che “Anna” (nome di fantasia per proteggere la privacy del ragazzo) gli consegnerà il sushi ma si vede arrivare un ragazzo con la barba, e ancor di più per la persona trans*, che pur di non ritrovarsi ancora una volta in questa situazione, forse rinuncerà al lavoro. L’alternativa è svelarsi 10 volte al giorno in quanto persona trans* (10 coming out forzati quotidiani, insomma): a ogni consegna, in tutta la sua città, che lo voglia o no.
E’ veramente l’unico modo? A giudicare da come altri servizi di food delivery non hanno posto il problema, no.
Nei prossimi giorni l’azienda verrà contattata dalla nostra consulente legale per vedere come risolvere l’inghippo burocratico, per studiare insieme cosa si può fare: a volte si tratta semplicemente di spiegare un’esigenza, superare una procedura, evidenziare un bisogno mai incontrato prima.
Come clientela abbiamo la possibilità di scegliere se ingaggiare aziende di food delivery o no, anche in base a quello che è il trattamento lavorativo del mondo “rider”. Ma qui il punto riguarda chi non può permettersi di scegliere che lavoro fare, in certi momenti della propria vita. Come quello che attraversa un ragazzo trans*, i cui documenti non vengono rettificati per anni, perché se no, a quanto pare, potrebbe competere nel mondo del lavoro con un ostacolo in meno da superare, e non sia mai, nell’Italia del 2020.
Quindi: facciamola alla svelta (e per bene!), la legge Zan contro le discriminazioni: ma poi bisogna buttarsi a capofitto sulla riforma della legge 164/1982. Trentotto anni di attesa ci sembrano più che sufficienti.
Alberto Nicolini – Presidente di Arcigay Gioconda